Candido airone

Candido airone “Luigi, vieni a leggere” chiede la maestra. Tu ti avvicini alla cattedra, esitante. Non ti senti mai al sicuro fra le pareti della scuola, è come essere sottoposti ad un processo ininterrotto, e alla fine il giudizio è sempre lo stesso: mai positivo. Lo intuisci dalle riposte disattese e gli sguardi sfuggenti, quando ti rivolgi a qualcuno dei tuoi amici di classe; lo percepisci dalle frasi in tono sommesso che si scambiano gli insegnanti, guardandoti da lontano. “Leggi qui.” Ti avvicina la pagina di un libro. Inizi a leggere sillabando le parole, i compagni ridacchiano dal posto, la maestra finge di non accorgersi. “Luigi, leggi bene.” L’ansia di non riuscire ti abbranca, il pensiero della tua incapacità ti sfibra, fino a bloccarti. La maestra alza lo sguardo e non si accorge che il tuo corpo è teso fino allo spasimo. “Posso andare in bagno?” La tua mente è ferma alla scena di stanotte. Tua madre è rientrata ubriaca. L’assistente sociale l’ha minacciata che, se non smetterà di bere, ti condurranno di nuovo in istituto. Per tutta la notte ha pianto, si è disperata, - Non voglio perderti - ripeteva. Non vuole che ti strappino a lei, perché tu rappresenti la sua scommessa sulla vita, il pegno di una normalità raggiungibile, da conquistare per tuo amore. Intanto allungava calci alla porta e urlava: “Se accadrà di nuovo mi ammazzerò.” Perché senza di te ogni tentativo di affrancarsi dalla schiavitù dell’alcool è inconsistente. Tu eri spaventato, ti sei irrigidito contro il muro, un grumo di sangue ti è colato dal naso. Non è la prima volta che il fardello della sua vita, scaraventato sulle tue spalle gracili, ti fa sentire come una pietra inerte. “Proprio adesso ti scappa?” scherza la maestra. Diventi rosso e abbassi la testa. In aula è uno schiamazzo generale, anche lei ride compiaciuta per l’effetto della sua battuta. Raggiungi il bagno, bevi un sorso d’acqua, le labbra ti tremano. Hai l’impressione di aver sostenuto un incontro di boxe. Le risate della classe ti risuonano nella mente. Ti senti un vile. Eppure nessuno dei tuoi compagni ha sostenuto tante prove come te: notti insonni senza luce con il lamento dei cani sotto la finestra, l’odore rancido della stanza che ti prende allo stomaco, la biancheria sporca, le notti inquiete popolate da incubi e il risveglio duro in un letto freddo per il gelo della notte penetrato dalle imposte divelte. Quando rientri dal bagno, un uomo di statura alta è fermo davanti alla porta chiusa della tua classe, gli occhi vigili a scrutarti. “Sei Luigi?” “Si, sono andato in bagno” rispondi sulla difensiva. In effetti, sei uscito per cercare aria, vorresti scrollarti di dosso la disperazione di tua madre, l’immagine del suo corpo ossuto, il viso smunto, la bocca aperta che mostra i denti corrosi dall’alcool, riversa a terra, stremata dalla rabbia. “Sono il professore Giovanni.” Ti offre la mano e tu la stringi, impressionato da quel gesto. Lui ti guarda e sorride. Hai dodici anni, ma ne dimostri non più di otto. Il tuo corpo è minuto, hai occhi impauriti, ma uno sguardo che trapassa le cose, dalle profondità imperscrutabili, ignoto alla maggior parte dei tuoi coetanei. “Sono il nuovo professore di sostegno.” Ne hai conosciuti molti, nelle tante scuole che hai cambiato, peregrinando da una città all’altra, e ovunque un collegio di professori ha stabilito che tu non sei mai idoneo per passare alla classe successiva, ma nessuno si accorge che tu sei troppo adulto per qualsiasi classe, anche se il tempo per te scorre all’indietro. I tuoi anni aumentano, sei costretto a frequentare ragazzi sempre più piccoli di te. Quelli della tua età proseguono, tu arretri sempre di più. “Facciamo conoscenza? - ti chiede - o vuoi rientrare in classe?” Non rispondi. Volti il capo e guardi verso l’uscita delle scale, indeciso. “Ti va di giocare al pallone?” “Va bene.” Hai accettato, con un filo di voce, sebbene non avessi voglia. E’ dura stare in classe, assistere a una lezione che non potrai imparare. I tuoi compagni sanno sempre cosa rispondere, tu ti poni domande a cui non trovi mai risposte. Sembri invisibile, come se non potessi esistere tra i banchi. Li vedi scorrere pagine di libri nuovi, i pochi che tu possiedi sono logori, differenti dai loro testi, hanno pagine sgualcite e sporche. Raggiungete il campetto, dietro l’edificio. Il corridoio silenzioso, con i muri bianchi, ti ricorda altri corridoi, attraversati di recente, per le visite a tuo padre. “Vediamo come te la cavi.” Il professore ti lancia il pallone all’improvviso, lo raccogli, lo scalci per ribatterlo. I tuoi polsi sottili venati in superficie s’intravedono dalle maniche corte; le gambe smilze nascoste dai pantaloni larghi, si sforzano di correre. Eppure hai grazia nei movimenti e morbidezza nei gesti: suggeriscono l’idea che tu abbia un animo gentile, rimasto candido nonostante la bruttezza che ti circonda. “Dai, pappamolla, muoviti!” Il professore ti guarda di soppiatto, spia la tua reazione. Sa che una mossa sbagliata potrebbe compromettere l’incontro. Giocate per un po’, ti senti già stanco. “Voglio smettere.” Lui acconsente, ti mette un braccio sulle spalle e camminate fianco a fianco per il viale. “Che cosa mi racconti, Luigi?” Della vita hai già conosciuto tanto. S’intuisce dal tono delle poche frasi che pronunci, accompagnate da gesti adulti, parchi. “Che cosa hai fatto ieri, dopo la scuola?” “Sono stato a casa.” Al pomeriggio vai a prendere l’acqua che usate in casa in un ristorante lì vicino, il proprietario è un tuo amico, a volte rimedi anche un panino. Riempi le taniche e sullo scheletro di una carrozzina, le trasporti fino a casa. Il sabato fai il posteggiatore ai suoi clienti. “Eri da solo?” “Si, poi è venuto a chiamarmi Gennaro.” “Chi è Gennaro?” “Il mio amico. Abita dove abito io.” La serietà con cui esprimi le parole, i nomi, il mio amico, rimanda a un codice radicato di relazioni, a un rapporto stratificatosi dentro. Eppure a scuola i professori sostengono che non sei capace di relazionarti, che hai difficoltà ad inserirti nel contesto sociale. “Gennaro vive con la madre e le sorelle, a piano terra.” “E tu dove abiti?” “In via dei Pini.” In un complesso prefabbricato in disfacimento. Un edificio in pietra grezza, con facciate senza intonaco, l’ingresso aperto come la spianata di una stazione, dove il vento spazza gelido, mulinando mucchi di spazzatura, assiepata ovunque. “Nel Parco Serena?” La gente resta a distanza, scandalizzata dal degrado, come di fronte ad un bubbone pustoloso. Vi sfrecciano davanti con le auto, per raggiungere le case del Parco più lontano, hanno paura di infettarsi respirando l’aria, lo chiamano il Bronx. “Vicino, negli alloggi degli ex-terremotati.” Prima di voi, l’hanno occupato i terremotati, contendendola ai topi e ad una muta di cani randagi. Il vento percuote l’edificio appena può e spinge dietro le porte di compensato, fa tremare i vetri rotti dei locali. Tu abiti al piano superiore, in fondo ad un corridoio tetro, con i muri insudiciati da sgorbi e parole oscene. Eppure è la tua casa: dove puoi vivere con tuo padre e tua madre, sotto lo stesso tetto. “Prima vivevo a Napoli, al rione Sanità.” Lo dici come se dichiarassi di avere nobili natali, ne sei fiero. Prima che tuo padre finisse in carcere, la prima volta. “Ci vivono altre famiglie?” “Un’altra famiglia, oltre a quella di Gennaro.” E’ una coppia di tossici, lei è ammalata, se ne sta seduta al centro dello spiazzo, con lo scialle sulle spalle, il viso cirrotico, davanti ad un bidone acceso con la legna, che il compagno rimedia dalla pineta accanto. Intorno al fuoco gironzolano i cani, chiazzati di croste sulla pelle ròsa. “Mio padre ha detto che l’anno prossimo ce ne andremo di là.” Di notte si aggirano gli spacciatori. I clienti arrivano con le macchine e subito ripartono. La polizia non entra nello stabile. L’aria fetida e stagnante che impregna le pareti, l’odore maleodorante del legno marcio, li respirate solo voi. Chi ci vive, insegue il sogno di andare via, avrebbe il senso di una conquista sociale; qualsiasi altro luogo sarebbe un eden. “Oggi vado dalla nonna.” “Abita lontano?” “No. E’ malata. Ho vissuto con lei, mentre i miei genitori erano fuori.” Il tribunale ti affidò a lei, i tuoi genitori vivevano in stazione. Dopo tanti anni, sei tornato a vivere con loro. “Fammi vedere il tatuaggio che hai.” Gli mostri il polso, sorridendo. “Che cos’è?” “Un airone. Lo trovai sulla spiaggia. Era stato ferito da un cacciatore, aveva una pallottola conficcata sotto un’ala. Lo portai a casa e cercai di curarlo. Era bianco, bellissimo, candido come la neve. Aveva piume così morbide e leggere, che si aprivano al minimo soffio d’aria. Si riprese, ero riuscito a togliergli il proiettile, ma non poteva più volare, aveva gli occhi tristi. Gli portavo dei piccoli pesci che mi dava il mio amico del ristorante, camminava per la stanza sulle lunghe zampe nere. Poi un mattino lo trovai morto.” Il professore è andato in segreteria dopo che vi siete lasciati, ha preso la tua scheda. Frequenti la quarta elementare, per la seconda volta, e così è stato per la terza, la seconda, la prima. Ogni anno devi ripeterlo due volte, come se fosse un percorso prestabilito. Sulla copertina ha visto una targhetta di plastica con scritto: “Minore a rischio.” Ha scorso le pagine interne, ha letto: Ripetente: ragazzo assente, con difficoltà di linguaggio e di comprensione logica. Disturbi della memoria, reiterata incapacità a scrivere e a leggere. Scarso senso di coesione sociale. Resta a livello di prima elementare. Genitori assenti. Per te la scuola è sempre come il primo giorno, un universo inesplorato e ostile, retto da leggi che tu ignori. Non sai orientarti, perché il mondo in cui ti muovi è troppo distante da questo. Non hai la concentrazione per apprendere, non è negligenza, è assenza di punti di riferimento, hai la mente marchiata da troppe immagini cruente. Non riesci a fermarla sui concetti astratti, la realtà ti pressa con crudezza. Il professore è sdegnato, per l’etichetta apposta sul tuo fascicolo, non sa comprendere che cosa voglia dire la frase Minore a rischio, detesta quel linguaggio burocratico, si sente in colpa per l’indifferenza dei suoi colleghi. Si chiede a cosa serva la scuola, che dopo sei anni non è ancora in grado di insegnare a Luigi a leggere e scrivere. La volta successiva, ti scopri ad attendere l’arrivo del professore. Non sai perché, ma senti che lui è diverso. E’ uno dei pochi che ti abbia chiesto come stai, e davanti al tuo silenzio, non ha reagito scrollando la testa rassegnato, ma ha atteso finché tu avessi voglia di parlare. Senza perdere di vista la porta, aspetti che venga a prenderti. Siete andati nuovamente sul campetto. Giovanni vuole aiutarti, lo intuisci. Vorrebbe rompere il muro di silenzio che ti divide dal mondo esterno, ma ha paura di frantumarti. Se potesse vedere le tue ferite dentro, penserebbe a un cancro, non cicatrizzano mai, corrodono le ossa e ti perforano. Inizi tu a parlare. “Ieri non sono venuto a scuola.” “Perché?” Vorresti aprirgli il tuo cuore ferito, non lo hai mai fatto con nessuno. Forse lui lo accoglierebbe. “Sono venuti degli uomini, durante la notte.” “A casa tua?” “Mi hanno puntato una pistola alla testa.” Gente della camorra, ha detto tuo padre. A viso scoperto, e le pistole come hai visto nei film. Ti hanno agguantato per i capelli, puntandoti la pistola alla tempia, poi hanno preso tuo padre e lo hanno picchiato a sangue. È caduto come un cencio ai tuoi piedi, mentre loro, aprendo la porta con un calcio, fuggivano via. “Li conoscevi?” “No. Sono venuti per mio padre. Lo hanno minacciato che se lui li disturba di nuovo nella loro zona, lo ammazzeranno.” Tuo padre a volte ruba una macchina, o uno stereo, oppure fa uno scippo. Ma non è molto bravo. Lo hanno preso già due volte. Vorresti che cambiasse vita, che la smettesse con i piccoli espedienti, le sciocche furfanterie, gli escamotage dell’ultimo minuto, che lo inducono a comportarsi con mille doppiezze e ambiguità. Anche se sai che lo fa per voi. Vorresti che trovasse il coraggio di riscattarsi per davvero, senza fingere ogni volta con se stesso che cambierà. “Tuo padre che cosa ha risposto?” “Ha detto che si sbagliavano, che non era andato a rubare nella loro zona, che non era stato lui, che non ha intenzione di rubare più perché non vuole ritornare ancora in carcere.” Ti piacerebbe imparare a leggere e scrivere, da grande fare un lavoro vero, portare i soldi a casa. “Hai avuto paura?” “Si, ma era per mia madre.” “Lei dormiva?” “Non ha capito.” Fai una pausa, prima di rivelare in fretta: “Mia madre beve dalla nascita.” Giovanni è perplesso per l’espressione che hai usato. “Anche sua madre beveva” aggiungi per giustificarla. Provi imbarazzo, ma hai l’impressione che il professore non ti giudichi. “Mio padre è agli arresti domiciliari.” Per questo siete venuti ad abitare nel Bronx, per un alloggio che ha permesso a tuo padre di uscire dal carcere. Il professore sfila dalla tasca una merendina. “Luigi hai fame? Ne ho una in più.” Non hai mai appetito, ma non è per questo che non cresci. Hai fame di un altro cibo. Di normalità, di allegra spensieratezza, che esorcizzi le tue paure. “No, grazie, professore, non ho fame.” Sei avido di tregua, nelle giornate convulse, con le sparizioni di tua madre e le sue ricomparse, i suoi scatti di furia distruttiva; i litigi incessanti tra i tuoi, con le minacce urlate, le promesse mai mantenute, le accuse che fanno male, e i pianti inconsolabili. Ti piacerebbe trovare il pranzo pronto, quando torni dalla scuola, i tuoi sorridenti ad aspettarti. Per te ogni giorno è un azzardo. All’uscita della scuola aspetti sulla fermata dell’autobus, in piazza. Nell’angolo di fronte c’è un’edicola con l’immagine della Madonna. La guardi, ti fai il segno della croce, le tue labbra si muovono per una preghiera silenziosa. Passa un autobus, ma il conducente non lo conosci. Decidi di aspettare il prossimo, di sicuro arriverà lui, è un tuo amico e ti lascia salire senza biglietto. Sull’altro lato della piazza scorgi il solito gruppetto di bulli. Il più robusto, occhi piccoli come fessure, è il fratello di un tuo compagno di classe. Vagabondano nei dintorni della scuola e infastidiscono. Ti fissano, mentre parlottano tra loro, li vedi attraversare e dirigersi verso di te. Tenti di fuggire, ma ti rincorrono e in un attimo ti sono addosso. Ti strattonano, ti spingono. “Perché scappi, hai paura?” “Non rispondi, eh, vigliacco!” Fanno capannello e ti schiacciano contro il muro, poi cominciano a colpirti con calci e pugni, tutti insieme. “Prendi questo” “E questo” “Così impari a fuggire” Il più feroce ti sferra un colpo alla testa, ti si annebbia la vista, il dolore ti va vacillare, cadi sul marciapiede. Adesso sono tutti intorno a te. Quanti? Quattro, cinque, sei? Ti sembrano moltissimi, ognuno vuole mostrarsi più forte degli altri e ti picchia con più violenza. Ti copri il viso con le mani e ti rannicchi con il capo tra le gambe. “Vigliacco” “Schifoso” “Femminuccia” Senti il rumore dell’autobus che si avvicina. Chiudi gli occhi e ti abbandoni, pronto ad essere divorato, ma loro d’improvviso scappano. Tenti di sollevare il capo, nell’angolo in cui sei steso, vicino al contenitore della spazzatura. L’autobus passa senza fermarsi. Ti accorgi che il sangue ti cola dal viso, imbratta la maglietta, provi a muovere un braccio, i colpi ricevuti ti strizzato le carni. Il sole alto nel cielo sbuca da dietro una nuvola nera e brucia le tue ferite. Qualcuno si avvicina, hai ancora paura. “Luigi, sei caduto?” Riconosci Gennaro. “No, sono stati loro” “La solita banda?” “Stavolta erano di più.” Gennaro ti aiuta a rialzarti, tu barcolli sulle gambe malferme, ti passa un fazzoletto e ti pulisci il sangue. Ti ricomponi gli abiti. “Non dirlo a mio padre.” V’incamminate verso casa, silenziosi e complici. Gennaro prende il tuo zaino. Ti viene in mente il professore, ha promesso che verrà a trovarti a casa. Pensi alla sua stretta di mano piena e forte. Nessun adulto l’ha mai allungata a te, poi pensi all’airone che non volava, immagini di essere anche tu un airone, vorresti spiccare il volo, volare nell’azzurro sopra le città, volare via prima che sia troppo tardi. Forse il professore mi aiuterà. Riprendi forza, gli occhi ti diventano lucidi d’emozione, inizi a correre, una corsa svelta e fiduciosa fino a casa.

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