Ogni notte mi appare in sogno un angelo. Non
so se sia proprio un angelo, perché non ha le ali. La prima volta che lo
sognai, ero in una valle completamente oscurata. Il sole e le stelle avevano
perso il loro splendore. Dalla cima dei monti scendeva una nebbia lattiginosa a
velocità sorprendente e inghiottiva al suo passaggio case, piazze, uomini. Era
una coltre densa simile alle scorie immesse nell'atmosfera dall'inceneritore di
una grande industria. Invece di disperdersi, s’insinuava nella materia,
penetrava nei muri delle case e sgretolava ogni cosa, aspirava le persone e le
cancellava.
Mi chiedevo che cosa potesse ridurre la Terra
in quel modo. Una piaga, una malattia dell’aria, un attacco chimico?
“Dove siamo?” chiesi all'angelo, che rispose:
“Questa è la valle di Giosafat.”
Quella visione si ripeté per diversi giorni.
Poi lo scenario cambiò radicalmente. Acceso
di luce vivissima, il panorama di una valle di delizie, ornata d’alberi
esuberanti di frutti, mandorli, melograni, fichi, mele. Seduti sul prato, una
moltitudine di angeli, di età diverse, pargoli, fanciulli, adolescenti.
Suonavano strumenti, chi il flauto, chi la cetra, chi il liuto, adagiati l’uno
accanto all'altro. Alcuni leggevano spartiti o libri, altri ascoltavano soltanto.
A giudicare dalle loro espressioni doveva trattarsi di una musica intensa e
vibrante, i loro volti erano estatici, come se la melodia non provenisse da
quel luogo ma da una sorgente in alto e nascosta al mio sguardo, poiché
guardavano tutti verso lo stesso punto.
Non li udivo. Dentro di me c’era un silenzio
tremendo, ma la bellezza della visione mi apriva il cuore alla gioia,
cancellando ogni impressione di desolazione. Anche se non potevo ascoltare i
loro canti, ero felice di guardarli. Io non pensavo di essere vista da loro, quando
vidi un angelo venirmi incontro. Lasciò il suo strumento e venne verso di me.
Era bellissimo, raggiante di luce e d’amore, la pelle candida, come il fulgore
degli astri. Aveva le mani splendenti e un‘espressione sul viso indefinibile,
come se volesse trasmettere un pensiero che io non riuscivo a decifrare, e
rimanevo delusa.
Gli sorrisi, come si fa con i bimbi,
intenerita. Mi prese la mano e mi fece ruotare con il corpo, indicandomi il
lato opposto della valle, uno scenario completamente diverso.
Era una distesa smisurata, che si estendeva
per miglia e miglia, simile ad una discarica come ne esistono nelle periferie
delle grandi metropoli moderne. Era intasata di cumuli alti come montagne, non
capivo di che cosa fossero formate, poi, pian piano cominciai a distinguere
singoli pezzi. Erano ossicine minute, cartilagini, resti smembrati di corpi
ancora insanguinati e il sangue colava copioso dalle sommità degli ammassi,
formava un fiume ribollente che diventava mare.
Ad un tratto notai che qualcosa pulsava, come
dei piccoli cuori. Ero sbalordita e, allo stesso tempo, sgomenta. Sempre
tenendomi per mano, non avrà avuto più di quattro anni, io percepivo la sua
grande afflizione, un sentimento acuto di dolore misto a compassione. Mi sentii
a disagio. Distolsi lo sguardo, poiché non riuscivo a sostenere la visione e la
mia attenzione fu catturata da un enorme display sulla cima del monte più alto.
Era un numero gigantesco, composto di una sequenza impressionante di cifre, non
saprei se fossero miliardi di miliardi, non riuscivo a decifrarlo, e le ultime
cifre scattavano a velocità supersonica.
“Che cosa indica quel numero?” chiesi.
“E’ il computo dei corpi che arrivano nella
valle.”
In pochi minuti si andavano formando nuove
montagne di resti mortali.
“A chi appartengono questi corpi?”
Il mio angelo non rispose e io pensai che non
conoscesse la risposta. Si allontanò lasciandomi sola.
Lo sognai di nuovo.
Riconobbi la valle e riconobbi lui. Mi sedeva
accanto e non parlava. E così le volte successive. Sempre mi sedeva accanto con
quello sguardo affranto e negli occhi una pietà infinita.
Appena tentavo di parlargli la sua figura
diveniva evanescente. La visione terrificante aveva prodotto in me una grande
impressione e sempre la rivivevo ogni volta che lo incontravo. Avrei voluto
chiedergli se lo riguardasse in qualche modo, ma avevo paura a porgli la
domanda.
Continuò a venire nei miei sogni per molto
tempo. Io ero sempre più angosciata, perché non comprendevo il senso di ciò che
vedevo. La sua tristezza divenne per me un tormento. Adesso s’intratteneva di
più, sempre muto, restava a guardarmi e si lasciava guardare. Lo aspettavo,
ogni volta, pur sapendo che avrei sofferto a stare con lui. Poi una notte non
venne.
Fu allora che il sogno si trasformò. Non più
una visione, ma uno scorrere di sequenze su di uno schermo, come si trattasse
di un film, e il film mi sembrava di ricordarlo, perché ne riconoscevo
l’ambientazione. Era un po’ surreale, ma io riuscivo ad afferrare il significato
d’ogni sequenza come se ne cogliessi il senso profondo.
C’era un grande palazzo, al centro della
città e la città si chiamava Cultura della morte, e il palazzo era
formato di numerose stanze e in cima una torre. All'ingresso del palazzo c’era
scritto “EDONISTI” e le persone vi entravano spontaneamente.
C’era una fila interminabile di donne, a
volte accompagnate, più spesso da sole. Tutte avevano lo stesso sguardo vacuo,
come di persone non consapevoli, quasi spaesate. La fila arrivava alla reception dove fornivano informazioni, con brevi frasi secche, in fretta e senza
commenti. Poi le donne, ad una ad una, cominciavano a salire ai piani superiori
attraversando varie stanze e dietro ogni porta una persona in camice bianco le
riceveva, per indirizzarle velocemente alla stanza successiva e la meta di
tutte era la sala dove avveniva il rito. Nella prima stanza a tutte le donne
che entravano un signore dietro la scrivania domandava il numero dei figli e
chi ne avesse già uno, accedeva alla sala senza aspettare il turno.
La porta successiva recava il cartello “Dissoluzione
della famiglia” e vedevo coppie dividersi per entrare, l’uomo da una parte
e la donna dall’altra. Subito dopo c’era la stanza del “Programmazione”
e dentro c’era moltissimi individui che discutevano sui costi da affrontare per
allevare un bambino. C’erano oggetti di lusso, suppellettili, giocattoli
costosissimi, prodotti sofisticati, e ognuna di queste merci era pubblicizzata
da una grande catena di aziende, che si erano accordate per tenere i prezzi al
livello più alto possibile. Qui tutti si fermavano, guardavano ammirati,
toccavano e ne uscivano soddisfatti.
Sulla porta dell’ultima stanza c’era scritto
“Adozioni” e coloro che erano nel palazzo e sostenevano la città,
richiudevano in fretta e non facevano entrare nessuno.
In una sala bianca si consumava il rito.
Nell'anticamera c’era scritto: “Il silenzio dei giusti” e vidi una
sterminata folla che guardava l’andirivieni delle donne, e tutti stavano
irrigiditi a fissarle o voltavano il capo, fingendo di non accorgersi di loro.
Vidi ciò che era accaduto lungo il corso dei
secoli.
Scorsi innumerevoli donne che si procuravano
incidenti o bevevano pozioni d’erbe, sacerdotesse e maghe che preparavano
intrugli e filtri. Le donne che si sottoponevano al rito avevano quasi tutte il
viso coperto per non essere riconosciute, e spesso si limitavano a bere una
bevanda, oppure venivano drogate e infilzate con strumenti rudimentali. Vidi
sui loro volti la riprovazione per il gesto compiuto e potei intuire il loro
segreto tormento. Alcune di loro furono catturate e perseguite dalla legge e
scontarono in celle buie il loro delitto.
Arrivai alla nostra epoca. Riconobbi il
ventesimo secolo.
Un uomo dello Stato proclamava la legge dagli
altoparlanti e affermava:
“La legge è libera, l’aborto è libero,
gratuito, l’aborto è un diritto. Lo stato vi aiuta. Venite donne.”
E un coro di scienziati agitava provette e
annunciava:
“Non è nulla, non sono esseri umani, un
essere umano è da un certo giorno in poi e prima non è niente, è sangue e
polvere, non è nulla.”
In questo secolo le donne che partecipavano
al rito erano una moltitudine, molte gridavano l’utero è mio, e un uomo
fuori della porta ripeteva continuamente:
“L'uomo è di sola materia. L’anima non
esiste. Nulla sopravvive dopo la morte.”
E le donne erano felici d’entrare nella sala
e vi entravano a cuor leggero e spesso dimenticavano l’accaduto.
Ma udii un altro coro di voci, che gridava
giorno e notte nel cuore degli uomini e l’urlo silenzioso squassava le
montagne, entrava nelle viscere della terra e la terra vomitava fuoco e
distruzione.
Io aspettavo fuori della sala e un dottore mi
mostrò alcune immagini. Erano molto vive.
Un cuoricino pulsava e la didascalia diceva: 18
giorni.
Si vedevano dei ditini formarsi, e precisarsi
nella loro forma definitiva. La didascalia diceva: Un mese e mezzo.
L’immagine successiva era una creatura
perfettamente formata, che misurava non più di tre centimetri e poteva stare
nel palmo della mia mano. La didascalia diceva: 2 mesi.
La creatura si svegliava, ascoltava, faceva
capriole, scalciava, era triste o felice, misurava otto centimetri. La
didascalia diceva: 3 mesi.
Entrai nella sala bianca. Intorno al corpo di
una donna riversa sulla barella, il capo coperto da un telo, alcuni uomini si
affaccendavano. Il dottore aveva le mani rivestite da guanti insanguinati.
Accanto a lui due assistenti, intenti a detergere il sangue che colava
dappertutto.
Guardavo il corpo della donna anestetizzato e
osservavo lo svolgersi delle operazioni. Dapprima il dottore manovrò un
aggeggio, era un aspiratore e con esso aspirava dal ventre della donna pezzo
dopo pezzo, braccia e gambe, fegato, reni, tessuto, cartilagine. Questi
cadevano dall'imbuto dell’apparecchio in una vaschetta, ridotti in brandelli, e
le mani di un angelo le raccoglievano amorosamente, e imprimevano su di loro il
sigillo dei martiri.
Poi assistetti alla scena più crudele di
tutto il rito. Il dottore impugnò un arnese, lo guidò nel suo ventre e cominciò
ad inseguire la testina del bambino: la testina si ritraeva, non voleva essere
ghermita, e apriva la sua bocca in un urlo di terrore, ma il cucchiaio di ferro
la ghermì, e la schiacciò, con un colpo secco, come si fa, quando si rompe una
noce e la tirò via dall'utero.
Quando tutto ebbe termine, un assistente alzò
il telo dal corpo della donna e potei vederla in viso. Ero io. Allora urlai così forte da far vibrare le pareti della stanza.
Dopo qualche tempo mi vidi camminare per le strade, mi recavo al lavoro,
rientravo a casa, ma era come se non avessi più una ragione di vita, simile a
un vegetale chiuso all'interno di una scatola vuota. Non provavo più emozioni,
né ricordi.
Capii di aver rimosso quello che era accaduto
nella sala bianca. Mi ammalai. Vagai da un ospedale all'altro e i medici si
consultavano fra loro, ma non riuscivano ad individuare l’origine della mia
malattia. Ero sola. Mio marito non era più accanto a me.
Poi le visioni cessarono.
Mi svegliai.
Ero in un ospedale, dal letto dove giacevo
vidi il mio corpo attaccato ad una macchina.
Come se provenissi da un'altra dimensione, le
mie cellule si ridestavano pian piano e attraverso una cortina opaca, ritornava
in me la coscienza. In un breve istante, sospeso tra l’oblio della memoria e il
ritorno alla realtà, scorsi accanto al letto un balenio e il volto che
conoscevo bene mi sorrise. Poi scomparve. Udii la voce di una donna che diceva:
“Si è svegliata dal coma!” Poi, passi,
andirivieni, parole concitate.
Avvertii un dolore lancinante nella pancia.
La mente tornò a funzionare. Dopo alcuni minuti ricordai tutto. Le visioni
avute durante il coma erano impresse in me come solchi di pietra scavati nella
carne. La barbarie di miliardi di innocenti sepolti dal nostro lugubre silenzio!
Avrei voluto urlare! Era troppo l’orrore di quella vista! L’immagine delle
montagne di corpicini assassinati era insopportabile! Perché mi ero svegliata?
Nel letto in cui ero non avrei resistito al dolore! Che cosa avevo fatto! Il
mio innocente bambino, ucciso da me senza pietà, non l’avrei più
rivisto! Quel bimbo, a cui avevo negato di vivere e assassinato con crudeltà inaudita, mi
aveva aiutata a guarire dalla follia che il suo aborto mi aveva
procurato! Tanto amore avevo ucciso?
Tremendamente vero e doloroso.
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