La bella otaria


Nella baia di Barskeville, l’acqua d’estate pullula di barche. I pescatori gettano le reti a strascico, usano i palamiti, hanno lenze lunghe venti metri, all’estremità attaccano molti ami. 

Le temperature in aumento degli ultimi anni richiamano colonie di cormorani. Si alzano in volo, con il loro aspetto preistorico, sono ottimi pescatori, si tuffano in profondità per catturare i pesci. Si muovono impacciati, con i loro lunghi becchi, da cui pende la sacca gulare, simile ad un marsupio. 

Un gruppo di volontari perlustra la costa, da alcuni anni hanno costituito un’associazione di pronto intervento: disincagliano gli animali dalle reti, asportano gli ami dalle ferite, li curano. I cormorani restano a lungo impigliati nelle lenze, le trascinano con sé ostacolando il movimento, gli ami s’infilzano nella carne, le ferite non cicatrizzano mai. Ogni giorno i volontari portano a termine decine d’interventi. A volte esco con loro, come oggi. 

Abbiamo liberato un cormorano: la sua mole può confondere l’età, ma è giovane, avrà non più di un anno. Ha un arto intorno a cui si è aggrovigliato il filo di nylon, gli ha segato la membrana palmare che ricopre la zampa, ha già perso un dito. Era timoroso, non voleva avvicinarsi, nonostante gli fosse stato lanciato, varie volte il cibo. Sono stati necessari più di dieci minuti per liberarlo dalla lenza. Era la seconda volta che gli capitava. Uno dei ragazzi lo ha riconosciuto da una piccola ferita sul capo. E’ ancora piccolo e gli occorreranno almeno due anni per imparare a distinguere un amo. Mi hanno riferito che sono intervenuti per la sesta volta dall’inizio dell’estate su un altro cormorano.  

A metà mattinata Steve ha ricevuto la segnalazione della presenza di un’otaria sulla spiaggia. Steve è il capogruppo, ha la pelle abbronzata, sul capo porta un berretto e indossa una T-shirt con la scritta Salviamo il mare. Lo conosco dall’inverno scorso, quando è arrivato nella clinica veterinaria, dove presto servizio di volontariato. Studio all’università. 

Siamo partiti con il furgone, in meno di mezz’ora siamo arrivati là. L’otaria era riversa sull’arenile, visibilmente ferita, respirava con difficoltà. Le otarie si differenziano dalle foche per il loro aspetto sinuoso, meno fusiforme, per la loro capacità di ergersi sulle zampe posteriori, spostandosi sulla terraferma con un’andatura goffa e comica allo stesso tempo. 

Ad un primo esame presentava diverse ferite sul corpo, un taglio verticale adiacente a un occhio da cui colava sangue.  L’abbiamo sistemata in una gabbia e di corsa abbiamo raggiunto la clinica, che dista pochi chilometri dalla costa. Il dottor Redd, uno dei veterinari del centro, dopo un rapido sguardo ha detto: 

“E’ piuttosto malconcia. Ha diverse ferite, una è più profonda, un’incisione di almeno sei centimetri”. 

Lo squarcio era visibile sul dorso. 

“Probabilmente la chiglia di una barca” ha detto Steve. 

Soffriva, l’ho accarezzata con una mano, la pelle è ricoperta di un sottile strato di pelliccia scura. 

“E’ femmina - ho detto, rivolto a Steve - ha il corpo più affusolato, i maschi hanno un collo grosso, molto sviluppato”.  

“Ha rischiato di perdere un occhio” ha ripreso il medico. Le ha sollevato una palpebra: l’occhio era vitreo, opaco. 

Le ferite emettevano del pus. Le ha fatto la puntura contro le infezioni. In pochi minuti la situazione si è complicata. E’ salita la temperatura, l’ho bagnata diverse volte con docce d’acqua, era in uno stato di disidratazione molto avanzato. Appena la temperatura ha cominciato a scendere il dott. Redd le ha somministrato l’anestetico con una maschera applicata sul muso. Ha un muso arrotondato, da cui sporgono dei lunghi baffi chiari.

Dopo pochi minuti si è addormentata per l’effetto dell’anestesia; il veterinario che la ispezionava ha scoperto un taglio sotto la pinna sinistra. 

“E’ una vecchia ferita, il taglio doveva essere profondo, perché il tessuto cicatrizzandosi, - intanto spingeva la pinna avanti e indietro - ha compromesso il movimento. Questa pinna non riesce a muoversi liberamente come l’altra, non ruota in modo normale. Non so se è idonea a nuotare.” 

Era perplesso. Ha scosso la testa. Le sue parole mi hanno rattristato.

Le pinne per l’otaria sono essenziali, oltre a nuotare, le usa per issarsi sugli scogli, e anche se le zampe posteriori hanno la capacità di rivolgersi in avanti per procedere sulla terraferma, se una pinna soltanto è danneggiata, la sua sopravvivenza è compromessa. 

Le ha disinfettato le ferite recenti, mentre io preparavo le medicazioni. 

“Se non riesce a muoverla, non so proprio cosa fare. Potrebbe essere inutile curarla”.

Ha guardato prima Steve, poi me. Ascoltavamo in silenzio. Ha continuato:

“Potrebbe non farcela. In questo caso dovremmo eliminarla. Un’otaria che non riesce a nuotare ha poche possibilità di sopravvivere. Altre volte è capitato di doverne abbattere una”. 

“In che modo?” ha chiesto Steve.

“Le facciamo un’iniezione”. 

L’ho presa in braccio, ancora addormentata, poteva pesare non più di sei chili, l’ho trasportata nell’altra stanza, per una radiografia. 

L’esame ha rivelato condizioni peggiori. Le lastre mostravano le ossa lesionate in più punti. 

“Non so che dire. Dovrò consultare altri esperti”. 

Ho fatto una smorfia di delusione; il dott. Redd lo ha notato e forse per il desiderio di rincuorarmi ha aggiunto:

“Comunque, tutto dipende da come reagisce…- e rivolgendosi a me - portiamola nell’altra sala. La terremo in osservazione per qualche tempo”. 

Me ne sarei occupato io. L’ho sistemata in una piccola vasca, poi ho approfittato del passaggio di Steve per far ritorno a casa. Ho trascorso una notte inquieta.  

L’otaria è rimasta per due giorni senza bere né mangiare. Non avevamo molte speranze. Ad intervallo le misuravo la temperatura, era stabile, ma l’infezione permaneva. La sera a casa continuavo a pensare alla povera bestiola. Consideravo come fosse solo un animale malato, nelle profondità degli oceani o all’interno di una foresta, senza avere qualcuno che si prenda cura di lui. In un certo senso l’otaria era fortunata, anche se la causa della sua infermità era l’uomo. 

Il terzo giorno aveva un aspetto migliore. L’infezione era diminuita; nonostante il taglio alla bocca riusciva a mangiare i bocconi che le offrivo, dei piccoli pesci. Era ancora molto disidratata, così il dott. Redd mi ha insegnato un trucchetto. Iniettavo una siringa colma d’acqua nei pesci che lei ingeriva, così ingoiava anche i liquidi insieme con il cibo. 

Finalmente, una settimana dopo il suo ricovero, ha iniziato a fare qualche movimento. L’avevo trasferita nell’acquario della clinica, una bella vasca spaziosa dalle pareti blu, che colorano l’acqua d’azzurro e danno l’impressione del mare. 

Si è avvicinata al bordo della piscina e con uno scatto improvviso è emersa dall’acqua. Si è fermata per un paio di secondi, con la testa fuori dell’acqua e mi ha guardato: gli occhi erano vivi, lucidi. 

Non ho mai visto in un animale occhi così dolci. Poi con dei sibili acuti ha fatto le capriole, immergendosi e risalendo, lentamente, solo un paio di volte, come se avesse paura di stancarsi. Per premio, le ho lanciato un piccolo polipo che avevo conservato per lei. Sembra che l’abbia gradito molto, emetteva dei versi che somigliavano ad una manifestazione di gioia. 

Fa così adesso ogni volta che le lancio i pesci per il suo pasto quotidiano. Sfila lungo il perimetro della piscina, io faccio il giro apposta per farmi seguire, poi con un salto li agguanta al volo. 

E’ molto socievole, spesso esce dall’acqua e si allunga accanto a me. Prendiamo il sole come due amici. Io le accarezzo il dorso, le sfrego l’estremità del muso. A volte si addormenta e assume una posizione buffa. Dorme con le pinne sotto il corpo e le zampe posteriori distese, la testa sospinta all’indietro, con il naso rivolto verso l’alto. Io la guardo come si contemplano le meraviglie di Dio. 

Ha imparato a riconoscere i miei passi. Li sente anche da lontano, ha un udito sviluppato per via delle piccole orecchie sporgenti ai lati della testa. Inizia ad agitarsi in acqua e si avvicina, seguendomi lungo i bordi. Il dottore afferma che è molto migliorata e progredisce costantemente: 

“Solo quando sarà in grado di nuotare perfettamente e muoversi con agilità anche fuori dell’acqua, potremo pensare di restituirle la libertà.” 

Già, la libertà. La stiamo curando per questo, anche se il pensiero di non averla più nell’acquario mi infastidisce. 

Sono trascorsi tre mesi dal giorno che è arrivata, quasi morente. E’ bello vederla riprendere le forze poco a poco. E’ diventata la mascotte della clinica. Chiunque passi di qui viene a trovarla, gradisce molto la compagnia, fa moine, sibila, scherza con l’acqua. I bambini la trovano molto simpatica. 

Ieri sera ho visto il circo in tivù, per caso, scorrendo i canali. E’ uno spettacolo che non guardo di solito, perché penso che sia meglio assistervi da vicino; appena ho intercettato un’otaria sullo schermo, ho stoppato sull’immagine. 

Al centro della pista c’era un’otaria, mi è sembrato un maschio, con la palla in equilibrio sul muso, che faceva ruotare. Era bravo, è durato un bel po’, l’istruttore lanciava in aria la palla e lui la prendeva al volo, come un esperto giocatore. Finito l’esercizio, ha cominciato ad applaudire, battendo le pinne, provocando l’ilarità dei bambini. Era goffo con la sua andatura molleggiante, faceva il giro della pista e abbassava la testa per ringraziare. Era assolutamente delizioso.  

Il giorno dopo, mentre ero con lei, ho avuto un’intuizione: ho procurato una palla e ho provato a lanciargliela. Sarà stato per il loro istinto giocoso, subito si è messa a spingerla, dandole colpetti con il muso e trascinandola sull’acqua. E’ diventato il suo gioco preferito. Mi piacerebbe provare ad insegnarle a tenerla in equilibrio, come ho visto al circo, ma non voglio affaticarla più di tanto. 

E’ ancora in convalescenza, e il vecchio trauma sotto la pinna la intralcia un po’, anche se non le pregiudica il nuoto. E’ curiosa, quando esce dall’acqua: con una pinna non perfettamente allineata all’altra mi fa tenerezza.

Ho capito che le piace la mia compagnia: quando mi vede, emette versi di entusiasmo. 

Il dottor Redd segue da lontano, con tutto il lavoro che ha.  Ogni tanto arriva in piscina, ieri mi ha messo un braccio intorno alle spalle, sorridendo:

“Sei contento eh, da quando c’è lei”. 

I miei amici mi prendono in giro. Non comprendono il rapporto che si può stabilire con un animale, che non sia un cane o un gatto. 

Oggi il medico mi ha comunicato una bella notizia. Si è consultato con i suoi colleghi, ha mostrato loro la radiografia che le abbiamo rifatto nei giorni scorsi. C’è stato un risultato insperabile, le ossa si sono completamente calcificate. Ero sopraffatto dalla gioia. 

“Non mi meraviglio - ha detto - ha ricevuto delle cure speciali”. 

Poi, come se riflettesse ad alta voce, ha aggiunto: 

“Dove termina il lavoro della scienza, inizia quello dell’anima”. 

Era un’affermazione un po’ ermetica, ma ho compreso ugualmente il significato. Ha voluto sostenere che là dove la scienza smette di operare a causa dei suoi limiti, entrano in gioco altre forze, altre facoltà che l’uomo possiede, interviene il campo dello spirito. Diventa possibile oltrepassare i limiti della materia e delle conoscenze tecniche.   

L’estate è finita, la baia si è spopolata di barche, i cormorani sono partiti. L’otaria sembra in ottima forma. E’ arrivato il momento della partenza.  

Abbiamo preso la barca, la guidava Steve, l’otaria era nella gabbia a prua, io studiavo le sue reazioni alla vista del mare dopo tanti mesi. Mi è sembrata euforica, si agitava, saltava a sedere sulle zampe. Dovevamo raggiungere il largo, perché le correnti fredde che devono guidarla ad emigrare si sono spostate lontano dalla costa. Se la lasciassimo a riva, potrebbe non farcela ad individuarle. 

Siamo d’accordo che solo se avrà un buon impatto e dimostrerà di sapersela cavare, la lasceremo andare per la sua strada. Ho fiducia in lei, ma non posso impedirmi d’essere nervoso, per l’imminente separazione. 

Non mi decidevo ad aprire la gabbia. 

“Ricordi quello che ti raccomandavo? - ha detto Steve - Non affezionarti o il distacco sarà penoso. Questo è il suo habitat naturale, anche se in clinica è stata bene, assistita dalle cure mediche e dal tuo affetto”. 

Ho distolto lo sguardo dalla gabbia, ho inspirato profondamente e ho guardato l’orizzonte. Stavo combattendo una battaglia dentro di me. 

Un nastro di luce lattiginosa brillava sul mare. 

“Va bene - ho risposto - sono pronto”. 

Tutta la mia tristezza non valeva una sola ora della sua libertà, ho pensato. 

Ho spalancato la gabbia sul limite della barca e lei è scivolata direttamente nel mare, con un tonfo dolce. Si è immersa subito, sentivo che assaporava l’acqua, esplorava, poi risaliva, girando su se stessa. Era evidente che il suo ambiente le fosse mancato. Ero felice per lei. 

Costeggiava la barca, poi si tuffava in profondità, scompariva per alcuni minuti, risalendo dall’altro lato; passando sotto l’imbarcazione, dava dei colpetti sulla chiglia, per essere avvistata. Ci stava mostrando un saggio della sua abilità, per convincerci delle sue ottime condizioni. 

Abbiamo avvistato un grosso cetaceo poco distante.

“Bene, - ha detto Steve - riferendosi alle pinne dell’animale che affioravano dall’acqua - si metterà sulla sua scia e di sicuro troverà la via”. 

L’ho osservata, mentre si avvicinava al suo nuovo compagno, intanto Steve ha acceso il motore, ho preso il timone e siamo tornati indietro. Steve aveva già messo i piedi a terra, ho agito d’impulso, ho riacceso il motore e sono ripartito fulmineo, gridandogli che avrei fatto un altro giro di perlustrazione. 

Ho raggiunto il largo, nel punto in cui l’avevamo lasciata. Ho spento il motore e ho atteso. Non c’era. Volevo essere sicuro che si fosse allontanata insieme con l’altro. 

Si è alzato d’improvviso il vento e le onde schiumavano intorno alla barca. Ho preso il secchio con i pesci che mi ero portato dietro, temendo che non riuscisse a catturarne. Ne ho lanciato uno in acqua, per vedere se fosse nelle vicinanze, poi un altro, un altro ancora. E’ trascorso del tempo, non mi ero accorto che l’orizzonte si era chiuso. In questo periodo dell’anno il tempo può mutare repentinamente. Il cielo si era fatto livido, balugini di lampi saettavano sul mare, un’onda si è gonfiata e in pochi secondi si è rovesciata addosso. La barca ha barcollato pericolosamente; nel tentativo di conservare l’equilibrio mi tenevo con le mani sulla sponda, poi un urto più possente mi ha sbalzato fuori. 

Quando sono riemerso, ho sentito un dolore lancinante alla testa, probabilmente avevo urtato contro il legno; dell’imbarcazione erano rimasti pochi pezzi sparpagliati intorno a me. La violenza del vento aumentava, il cielo era scomparso, con uno sforzo sovrumano ho nuotato per qualche metro, lottando contro le onde che m’inabissavano, per raggiungere una tavola galleggiante; mi sono aggrappato ad essa con tutte le forze che mi erano avanzate. In un attimo di tregua dalla furia delle onde mi sono accorto che perdevo sangue, l’acqua che mi circondava era scura e stava formando una macchia sempre più estesa, ingoiavo sangue e acqua. 

Avrei desiderato almeno sapere se fosse stata in grado di allontanarsi, che fosse salva. Il pensiero che lei fosse già morta mi ha aggredito come un fendente, ha reso più amara l’acqua che ingurgitavo, tra poco anch’io l’avrei raggiunta, e saremmo rimasti insieme, nel mare che doveva essere la libertà e che invece ci vinceva. Poi non ho inteso più nulla. 

Mi sono risvegliato sulla spiaggia, il cielo sopra la testa, placato. 

Non sentivo più il corpo, per un instante ho considerato di non essere vivo, forse ero in un’altra dimensione, poi si è profilata una testa davanti ai miei occhi, ho riconosciuto Steve chinato sopra di me. 

“Accidenti, Jonas, mi hai quasi fatto secco per la paura!” 

Ero stremato, non riuscivo a parlare. Come di un brutto incubo mi è tornata la memoria di quello che era accaduto. 

“E’ stata lei a salvarti” ha detto Steve.

L’ho interrogato con lo sguardo.

“Quando è iniziata la tempesta, sono ritornato sulla riva, speravo che tu fossi riuscito a rientrare prima che si scatenasse la bufera, ero preoccupato, spiavo l’orizzonte ma non ti vedevo, non sapevo che fare. Sono stati attimi convulsi. Stavo per avvertire la guardia costiera, quando ho visto il muso dell’otaria emergere dal mare. Si agitava nell’acqua, gridava, si, erano proprio delle grida, un suono acuto di richiamo. Allora ho avuto un’intuizione. In un baleno ho chiesto ad un pescatore di accompagnarmi al largo, ho spiegato l’emergenza. 

Siamo usciti in mare con il peschereccio più grande, altri pescatori sono saliti con noi. L’otaria si è posizionata a prua e ci scortava. Vedevamo la sua sagoma nera emergere dalla spuma, dirigersi veloce, come se indicasse la strada, ero sicuro che ci avrebbe guidato dritto da te. L’uragano stava scemando, il vento perdeva violenza, l’occhio del ciclone si stava spostando. Oltre un banco di foschia che si diradava, ti abbiamo visto, la bella otaria era accanto a te.” 

Il suo racconto mi è parso inverosimile, poi la tensione si è sciolta e ho pianto lacrime di liberazione. 

“Eccola” ha detto Steve, indicando un punto poco discosto dalla riva. 

Mi ha afferrato con le braccia per sostenermi con il busto, ho alzato la testa a guardare il mare e l’ho vista.    

“E’ ritornata con noi, quando siamo rientrati con la barca per accertarsi che fossi salvo” ha precisato. 

Mentre ascoltavo le parole del mio amico ho iniziato a sentirmi meglio.  

Il gesto dell’otaria ha toccato le profondità del mio essere e come il sole che svapora la nebbia in un istante, quando sale all’orizzonte il mattino, mi sono visto come in uno specchio e finalmente ho capito. Mi sono accorto di quanto sono stato egoista a desiderare che rimanesse all’acquario per sempre, anche a costo di restare priva della facoltà di nuotare e col rischio della vita. In tutti questi mesi ho fatto spazio dentro di me ad una resistenza pervicace che si opponeva alla sua guarigione. Ero tornato indietro non per accertarmi che aveva saputo cavarsela, ma perché non volevo ridarle la libertà, cercavo una scusa per riprenderla a bordo. Ero pronto a farle del male, mentre lei mi ha salvato la vita.  

Ho deciso che era il momento di lasciarla andare.     

“Va’, - l’ho esortata mentalmente - riprendi la tua vita”. 

Ha fatto un’immersione, poi è saltata fuori dell’acqua, è ricaduta battendo sulla superficie con il corpo, e con un richiamo prolungato si è allontanata velocemente, dimenando le pinne a dirci addio.  

 



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