Dalle tende del balcone leggermente accostato filtrava un chiarore insolito. Non doveva trattarsi ancora dell’aurora, perché il sole a maggio non sale da oriente che dopo le cinque e i rintocchi di S. Maria del Pianto avevano da poco segnato le tre.
Il marchese Domenico
Malafronte, dal letto in cui dormiva, troppo grande dopo la morte della
consorte Maria Grazia, era sveglio, oppresso dai pensieri. Quel chiarore non
gli parve un buon segno e, infilata la veste, uscì sul terrazzino che guardava
alla montagna. Immediatamente fu investito da un effluvio denso e maleodorante:
un misto di cenere e di vento bruciante, che gli seccava la gola e gli pizzicava
gli occhi.
Davanti al suo palazzo era
ferma una carrozza. Alzò gli occhi e vide che dal cratere si elevava un’immensa
colonna di fumo che si allargava a chioma di pino e si allontanava in direzione
di Boscoreale. Al di sotto una fanghiglia densa e incandescente si stendeva a
tappeto lungo i fianchi del vulcano.
Ci siamo, pensò, il Vesuvio s’è di nuovo scapricciato!
Lo scenario della
montagna lo avvinse: lo trovava magnifico. La lava fluiva dall’orlo del cratere
e il torrente rifulgeva di un’intensa luminosità.
Da quando era venuto ad
abitare in Torre del Greco, era la prima volta che gli capitava di assistere ad
una eruzione a distanza ravvicinata. La cittadina era situata proprio ai piedi
del vulcano e si estendeva lungo tutto il versante occidentale, in posizione
frontale rispetto al cono.
Sette anni prima,
l’ultima eruzione che ricordasse, l’aveva vista dalla casa di Napoli, dai
Camaldoli, ma a quel tempo non era ancora sposato. Fu in seguito a
quell’eruzione che conobbe una nobile torrese in casa di un luminare della
scienza suo amico, il professore De Bottis, presso il quale si era recato in
visita per conoscere la sua opinione sull’evento. La frequentazione con la
donna fu piacevole e il carattere docile di lei lo conquistò. Era persuaso che
una moglie ubbidiente facesse la felicità del marito, e finalmente si decise ad
abbandonare la vita da scapolo per un’esistenza più regolare in una nuova casa.
Il matrimonio, purtroppo, non mutò le sue abitudini.
A guardarlo esteriormente,
anche adesso, nel suo stato di vedovanza, nulla era mutato nel suo aspetto: la
stessa ricercatezza degli abiti, un’elegante indolenza nei movimenti, lo stesso
sorriso ambiguo sulle labbra molli, lo sguardo sfuggente negli occhi piccoli
come fessure, la capigliatura acconciata all’ultima moda. Interessato alle novità,
sfoggiava un nuovo monocolo impreziosito da una catena d’oro e lo aveva
accostato agli occhi per godere meglio lo spettacolo della natura.
Continuava a guardare
affascinato e quando levò lo sguardo dal monte, si accorse, al chiarore che
aveva inondato la strada, che il calesse fermo davanti al suo portone era in
realtà una carrozza attrezzata con due splendidi cavalli bianchi dal pelo raso
e lucido.
Il marchese s’incuriosì. Si
sporse meglio dal balcone e notò che il vetturino era un uomo incappucciato. Rientrato
in camera, chiamò il domestico Peppino e intanto girava per la stanza facendo
gesti di scongiuro poiché era molto superstizioso.
Il marchese era d’origini
napoletane. Negli ultimi tempi era diventato ipocondriaco: si dibatteva in
lacerazioni interiori che gli rendevano l’animo inquieto, oscillante. Amava assai
le donne, e nonostante si fosse deciso, anni prima, a sposarne una, nondimeno
per tutto il tempo del suo breve matrimonio ne aveva conosciuto altre. La
moglie, non sappiamo se fosse consapevole della doppia vita del marchese, era
morta di vaiolo nell’ultima epidemia che aveva decimato la città. Egli si era
salvato per le sue precauzioni, vere e proprie fisime. Disinfettava qualsiasi
cosa con cui veniva a contatto, compreso il cibo, con certa polverina che
scioglieva nell’acqua e che si era procurato da un alchimista di Padula, un
tipo stravagante, il tanto chiacchierato marchese di Sanfrediano.
Da qualche tempo era invischiato
in un intrigo con una nobildonna d’origine spagnola e architettava di uscirne
con il minor danno possibile, prima che le cose si complicassero. Costei gli aveva
fatto recapitare la sera prima una lettera, in cui gli intimava una decisione
perentoria: o acconsentiva che lei, Consuelo Fidantés, figlia di un ufficiale
dell’esercito borbonico di Sua Maestà Carlo VII, Re di Napoli e di Sicilia,
divenisse la nuova marchesa Malafronte, o il suo amore (a dir il vero era una
donna di passione, su questo non vi era dubbio) se lo poteva scordare.
La morte della moglie,
che nei momenti di rara sincerità reputava essere stata un accidente
favorevole, gli aveva rimosso e spento ogni velleità matrimoniale: si era finalmente
convinto, nella breve esperienza coniugale, di non essere adatto al tipo di
vita che contemplava un legame indissolubile con un’unica donna. La sua defunta
consorte lo aveva annoiato fin dai primi giorni: tutta quisquilie e senso
comune. Una brava donna senza dubbio, ma ostinatamente piccina, un po’ bigotta.
Pregava per ore davanti ad un’immagine che raffigurava le piaghe di Cristo,
lacere e sanguinolente. Gli trasmetteva ansia. In quei momenti la detestava,
con il suo viso scarno atteggiato a una smorfia di compunzione. Odiava
l’aspetto compassato e dimesso della moglie. La giudicava fragile di mente,
plagiata da certi frati camaldolesi che ella frequentava a Monte S.Angelo, di
cui non perdeva una predica. Il marchese non aveva fede in Dio, che giudicava
una faccenda da donnette. Egli si sentiva uno spirito libero.
Anche Consuelo, adesso,
lo snervava. Che impertinenza! Di signore come lei poteva trovarne a centinaia.
Cos’era questa sua pretenziosità?
Più volte si era destato
durante la notte, spinto dal desiderio di rispondere alla nobildonna con uno
sdegnoso rifiuto alle sua ingiunzione. Poi le forme gradevoli della donna erano
venute a stuzzicarlo nel dormiveglia e aveva deciso di farle visita, l’indomani,
per meglio esternarle la sua delusione per quella richiesta perentoria. Adesso
il Vesuvio gli aveva fatto cambiare idea. Avrebbe mandato il domestico a riferirle
che era partito, visto il pericolo che minacciava la città; e così contava di
liberarsi senza compromettersi.
Don Mimì era uno di
quegli spiriti trepidi, i quali hanno la sventura di vivere a cavallo tra due
secoli e non sanno essere nostalgici dell’uno né pionieri dell’altro. Aveva un
carattere poco definito, alla stregua di coloro che non sanno portare fino in
fondo le conseguenze delle loro scelte e si accodano rassegnati
all’imprevedibilità della sorte. Nato nel 1705, aveva respirato durante l’infanzia
la cultura degli Asburgo. Ora che Napoli era tornata ai Borboni di Spagna, mal
si adattava al cambiamento.
Aprì il libro poggiato
sullo scrittoio: era un saggio “Sulle cause dei fenomeni naturali”, che
gli aveva prestato il suo amico, e cominciò a sfogliarne alcune pagine. Leggeva
tra le righe e pensava: appena fatto giorno si sarebbe recato dal Professore, che
abitava a qualche centinaio di metri. Era indubbio che fosse un uomo di
scienza, alcuni lo criticavano per via di certe sue teorie, piuttosto ardite,
ma al marchese era simpatico. Le sue speculazioni non lo interessavano più di
tanto; quei metodi nuovi di indagare la natura erano artificiosi. Egli era
permeato di convinzioni semplici. Aveva un’indole refrattaria al nuovo e
respingeva il nuovo credo nella scienza che allora cominciava a diffondersi tra
i suoi pari. Non aveva una buona opinione dei suoi simili, che giudicava spinti
solo dalla ricerca del proprio tornaconto. All’amico avrebbe chiesto un parere spassionato
sulla faccenda del Vesuvio e che cosa c’era da prevedere per i prossimi giorni.
Paventò l’idea di trasferirsi a Napoli, nella casa di famiglia.
Udì un improvviso
nitrito, si ricordò della carrozza davanti al portone e tornò a chiamare
Peppino, che tardava a salire: un insolente quello lì, doveva sempre insistere
per indurlo a ubbidire. Finalmente Peppino arrivò, con tutta calma. Il marchese
gli ordinò di informarsi chi attendesse la carrozza, ma poco dopo Peppino tornò
senza poter dire nulla. Non aveva visto nessuno e nessuno aveva bussato al
portone.
Sarà andata via, pensò.
Al rintocco delle cinque,
era il mattino del 14 maggio 1737, ritornò allo scrittoio perché aveva deciso
di scrivere un biglietto a Consuelo da farle recapitare dal domestico. Da lì a
poco un boato, come di un urto che sconquassasse la terra. Si volse esitante:
le mani ingioiellate facevano presa sulla poltrona; guardò nello specchio il proprio
pallido come un cencio. Non sapeva se chiamare la servitù e ordinare di
preparare la carrozza per fuggire a Napoli o aspettare lo svolgersi degli
eventi. Proveniente dallo specchio gli parve di intravedere una luce, una
specie di balenio. Sembravano i riverberi dei bagliori prodotti dall’eruzione:
dal balcone aperto si vedeva il cielo rosseggiare di lampi, l’aria era satura
di una polvere bigia, si udivano continui scoppietti provenire dall’esterno, ma
una sagoma dapprima indistinta, poi meno fugace, s’impresse con forza sopra il
suo capo riflesso nello specchio. L’effigie di sua moglie così come la
ricordava, con la fronte alta e gli occhi troppo grandi per dei lineamenti
smunti, lo scioccò. Gli sembrò che accennasse a un sorriso; si rianimò, pensò
che fosse venuta a rincuorarlo in un frangente pericoloso, e quasi ne fu
appagato. Poi il cuore prese a battere più velocemente, perché la bocca della
donna si era atteggiata a smorfia, anzi no: era un ghigno. Si beffava di lui!
Improvvisamente l’idea che fosse venuta a vendicarsi di ogni torto subito e di
tutti i tradimenti consumati gli fece l’effetto di una mannaia. Ebbe un capogiro.
Vuole spaventarmi, gemette, sa che ho il cuore debole.
Senza staccare gli occhi dallo specchio, come ipnotizzato, tentò di alzarsi. Le gambe erano molli. In quel momento alla sagoma riflessa se ne era sovrapposta un’altra e a mano a mano che i lineamenti si delineavano in una nuova sembianza e le forme si fissavano nello specchio, il nuovo viso, senza perdere il suo ghigno beffardo, si rivelò ben più terribile e raccapricciante. Era pieno di pustole e vesciche e si rivelò una maschera orrenda e bestiale. Guardarlo gli provocava ribrezzo e sgomento. Non riusciva a smettere di fissarla, quando, per un guizzo di luce soprannaturale, come accade in certi frangenti, riconobbe in quella rappresentazione la propria anima, deformata e stravolta dai vizi, in cui si riflettevano lussuria e depravazione, superbia e vanità.
Ne fu angosciato. Cominciò a sudare. Si mosse dallo scrittoio, con le gambe che sembravano di piombo, in cerca delle pastiglie per il cuore che aveva sul comodino, ma procedeva con sforzo e non ebbe il tempo di raggiungerle. Cadde bocconi sul letto: un odore forte, come di vetriolo, lo investì, l’aria divenne irrespirabile, cercò di liberarsi il colletto, respirando faticosamente. Con uno sforzo sovrumano si girò sul dorso, ma rantolava. Al suo fianco si disegnò la figura del vetturino, ed egli riconobbe uno di quei frati che ogni tanto passavano da sua moglie a prendere l’elemosina per i poveri. Aveva il capo chino in atteggiamento orante. Un alone di luce lo circondava mentre guardava verso la testiera del letto. Anch’egli si volse in quella direzione e affisse gli occhi sulle piaghe di Cristo (il quadro che non aveva avuto il coraggio di rimuovere dopo la morte della moglie): per la prima volta le vedeva davvero e gli sembrò che grondassero sangue e il sangue si spargesse in rivoli fiammeggianti e inondassero il letto, ricoprendolo. Ci fu un altro boato che echeggiò verso Napoli, ma non lo udì. Salito poco dopo il secondo boato, Peppino lo trovò sul letto, con il monocolo che penzolava nel vuoto, gli occhi strabuzzati, ma il viso disteso in un sorriso impercettibile. Non c’è più nulla da fare, pensò, è morto di crepacuore, e mentre lo componeva, abbassandogli le palpebre dure, udì salire dalla strada il tramestio di una carrozza e lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli sul selciato mentre si allontanavano lesti, animati da un’improvvisa euforia.
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